TURIN::: GAM, Galleria Arte Moderna, Area Paolini // Sabato 7 Maggio 2016 - 12:00
Fragogna AKA Semaforo Brown reads PATHOSLOGICO - Riappropriarsi del desiderio e tagliare la testa al Quote. Un racconto Gam-specific. |
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Introduzione all’autore.
Semaforo Brown, eteronimo di critico d’arte non accademico, personaggio totaleuropèo, omniologo rinascimentale che, marinando motti popolari Pirandelliani, a rigurgiti polemici Clairiani, a congetture impopolari, a momenti d’essere Woolfiani e a illuminazioni astrali, ci narra con vero acume e intelligenza la storia di un oggi assai glabro, un oggi adessoraneo, un oggi dal desiderio olografico da reincarnare. Introduzione al testo. L’assurdo è metro imprescindibile e paradosso. Assurdo. Tutto è godibile, ogni cosa duole, per ogni domanda ogni risposta. Albume e Permafrost. Il pubblico non è un’élite. Il soggetto è Browniano. Ergo Sum. |
Il racconto
Quando inciampo nell’intento di scrivere di argomenti di cultura in generale, cosciente di poter esprimermi sempre e comunque solo per approssimazione o per principio di approssimazione, mi accorgo che non ne vale mai la pena. Marchio “Notes” sul mac e audio sul cellulare che sistematicamente dimentico. Li ritrovo dopo mesi o settimane nel momento in cui mi si presenta l’occasione, come oggi, di scrivere di qualcosa o per qualcuno. E’ il caso gam-specific, per esempio. Allora mi rileggo e mi riascolto e non posso fare a meno di rivolgermi allo specchio per insultarlo: “Idiota! Stupido!”. Stupido e arrogante. Ma dentro alla testa ci sono enciclopedie di assunti impeccabili che mentre sogno danno il meglio di sé. O di me. Ho la testa nelle scarpe e cammino fino ad arrivare al dunque. Dunque mi domando quasi sempre una risposta. O più di una. Ne ho a bizzeffe. Ma non so come dirlo. Però intento. Comunque intento.
C’è un libro di Ziu Beu, eteronimo di maestro illuminato, che mi ha cambiato la vita. Il titolo: Se non sai come dirlo, Cita. In copertina, icona intramontabile, un tarzanesco Weissmuller e l’inseparabile scimmietta. Forse non è un caso che nella nostra lingua il verbo richiami il nome dello scimpanzè? Citare è sinonimo di scimmiottare? Si. Il Quote inglese, del resto, fa da eco al Quijote spagnolo, l’uomo che si scaglia contro l’illusione. Un pout-pourri d’intenzioni che, se ventilate nel momento esatto, sgravano la bocca dell’interlocutore, basendolo. Una zuppa di ciance. Pastine con la forma dei bla-bla.
Io, da uomo di non-scienza, da illaureato quale sono, preferisco da sempre parlare con la mia voce, dire le mie parole, moltiplicarmi in molteplici identità pur di parafrasare il ridicolo. Rischiando grosso, mi faccio giullare, giuggiolo e sfango. Illustro con idiomi onomatopeici e anamorfici la mia verità. Estremizzando, non dicendo il già detto, ripeto per propria voce e costruisco un ponte con te, mio interlocutore che amo perché in te vivo e di te ho bisogno. Noi due in relazione, un doppio senso che impedisca il divagare del senso unico poco alternato. Io e te che presupponiamo un flusso, di pensiero, di parola, di carne e di spazio trapassato di quanto in quanto, chiaro riferimento alla fisica. Dare voce al pappagallo è sterile e ci imbroglia nel pensiero unico, miseria senza nobiltà, gioco facile di memoria senza merito. Dare voce all’idea, seppur sgrammaticata, è vessillo d’identità, autonomia, originalità-origine-nascita-creazione, coraggio. Il vessillo del vassallo è la pigrizia, il citazionismo ruminato in quattro stomaci, il ri-ruminismo contemporaneo, epoca con molti lumi ma assai poche ragioni. Il patologico.
I cervelloni fumano e i cervellini sfriggono. Strategie ostiensi, astensioni estrose. Patetismi senza polemica. Terrore della polemica. Antidibattito e sproloquio. Quacchere e lacchere per saturare il tempo di parvenze metropolitane. Cosmoqualunquismo lirico. Dibattiti intonsi.
In situazioni simili pare di stare nella media, confortevole sobbollimento virtuale a guerrigliare in poltrona, noi che dovremmo essere quelli coltivati, intellighenzia opportunista che risolve i rebus al gabinetto. Grandi predicatori pasoliniani, basta che il leader sia defunto. Te la cavi a basso prezzo. Ora.
Santificatori di rottami e rottamatori di buoni propositi. Perbenisti ecologici. Conigli volpini, furbi quanto basta per sopravvivere sotto le righe, nei ranghi, al rogo. Estimatori di espedienti, postulanti quaresimali, silenziosi farlocchi ricchi di scuse, di poche grazie e pagherò fuori uso.
Io, Semaforo Brown, vengo dal volgo e come volgo, volgarizzo estetizzando. Perché, pur di nobile estrazione operaia, quello che dico faccio anche se astraggo mi destreggio. Sottoscrivo. M’indigno, non temo e polemizzo. Polemico è patetico, patetico è poetico. Poetico è inno. Innocente, innominabile, innuendo (allusione). La poesia è il dunque. La poesia non vende, il poeta langue, trema e freme. Tu, insulso sproloquiatore così mio simile, aborri il verso, persino quello sciolto. Non sai cos’è quindi giudichi male, scherzi, dileggi, sfotti. Non sai e non senti, basterebbe che fossi empatico o empatica o empatiX, come ti pare.
Io, Semaforo Brown, parlo di un tempo parafrasato nei toni del marrone, per terra, calpestato e strascicato via, un tempo metaforico. Interiorizzo i sussulti dell’apatia, sbuffo sulla polvere del già detto. Ammetto che non ci siano colpe insindacabili e promuovo assoluzioni certe. L’ironia è la sorte. Il senso del ridicolo si è dissolto nei gloriosi e infami eighties e non si è mai più materializzato. Noi che siamo quelli della pseudocultura, accademici farciti di nozioni che sfociano negli ismi di territori pre-colonizzati, USA e getta preconfezionati, precotti, precari. Cariatidi sostenenti frontoni ripuliti, rimodernati, dove spiccano cornicette irte antipiccione. Coroncine sui capi aureolati, sui monumenti in cui ci barrichiamo poiché, italici e barbari, godiamo i tempi passati che furono infami e gloriosi estrapolandone lustri e orgogli campali. Dimentichiamo il danno e la tragedia, essendone elegia rimane incisa nel marmo dei cimiteri che non visitiamo.
Critico d’arte, critico l’arte e non critico l’Arte. In queste arene si creano archivi di conoscenza. In queste arene, costruite per il confronto, si parla per voce sola. Non c’è nessuno. C’è qualcuno. Ci sarà ognuno, volendo, in un file online. Ma la vita, la vita e degli uccelli che parlano a un geco, discorso complesso, frode fedRIfraga fabula, amplesso avulso dal contesto. Assurdità. Eterodossia. Zero, centouno e qualche mila. Albume e Permafrost. Ialino e brinoso. Poesia. Artefatto.
Phatos-Logico, equilibrio.
Tagliare la testa al Quote per riappropriarsi del desiderio.
Voglio che tu mi dica che sono una bestia e che mi esponga le tue ragioni. Parlami la tua lingua, mettimela in bocca e insinuati, il desiderio è vita. Voglia di dire e di essere, svenevole esuberanza bollata come eccesso. Ecco, adesso, se invocassi Pentesilea tu ammiccheresti, penseresti: un riferimento, finalmente! Immagineresti cavalcate, passione e furia e annuiresti con un: si, si, ci sta. Ti sentiresti gratificato, se tirassi in ballo Koons gonfieresti tutti i palloncini, ne succhieresti l’elio e, stridulando e squittendo, profeteresti delle grandi verità. O se parlassi di memoria, di storie passate, di ricordi. Magari. Facile.
Se io sono te non sono me. Se sono te, il mio desiderio è un riflesso. Se sono me, il desiderio è il mio, unico, peculiare, inconfutabile. Può essere che sia un desiderio (discorso) elementare o complesso, casto o perverso. Non sta qui il punto. Il punto non sta nel giudizio. Il giudizio è casta, piramide, gerarchia. Lasciami essere banale. Un IO senza cappotto. Un io nudo, vulnerabile, vittorioso e relativamente anarchico. I riferimenti sono fondamenti educativi mentre il riporto è un’acconciatura posticcia. Te lo ripeto perché te lo voglio vendere, lo farò con ogni mezzo, attraverso laringi bulbose che vomitano dialoghi indiretti e simbolici. Ritornerà l’uso della metafora. Viviamo tempi barocchi che interpretiamo leggendo i tarocchi ma quando esce il Matto lo prendiamo per savio. Incrostati nell’adesso adessoraneo fatichiamo a sfangare i ceppi che ci costringono al suolo. Parliamo al presente, abbiamo perso i tempi e la sintassi, ignoriamo il futuro, non sappiamo pianificare, vedere, osservare. Leggiamo i bestseller, guardiamo i blockbuster e ci facciamo impressionare dagli impressionisti. Veneriamo (ancora in pochi perché ci parliamo addosso ma ancora per poco perché il mercatone è il logos della massa e la massa, cioè il popolo poco sovrano, viene educato dalla tv) l’Arte Povera, per esempio, perché il suo titolo ci conforta in tempi di crisi. Ci giustifica e vista così, a posteriori ma sfasata come fosse attuale, non critica ma annuisce. Anche i movimenti sono un fenomeno vintage. Li facciamo stampare su magliette e accessori, li portiamo (chi se lo può permettere) a casa e li installiamo come oggetti di design, ci appoggiamo sopra le chiavi o l’aperitivo. Decontestualizziamo persino i tempi pur di darci una spiegazione veloce, confortevole, approssimativa.
E’ solo che siamo drogati di “etichetta”, andiamo in crisi senza un label e senza un brand. L’etichetta e il brand sono delle citazioni perpetue, per dire.
Il logo Disney è un riferimento storico come la svastica, per dire.
Ora, che sia chiaro, non sto sparando a raffica contro la citazione, per carità. E’ l’attualissimo fenomeno della sovra-extra-troppa-surplus citazione che mi ingravida la bile. L’utilizzo del mezzuccio facile che copre la vergogna della povertà delle idee, la disonestà intellettuale. Il vuoto di desiderio. E’ ovvio che la ricchezza di idee, l’onestà intellettuale e il colmo del desiderio esistono, sono presenti ovunque. Ma non sono istituzionalizzati. Questa presenza è mal illuminata quindi molto spesso ignorata, non supportata. Non istituzionalizzata quindi non fertilizzata. A ogni domanda ogni risposta. Dai credito, cita (piuttosto) lo sconosciuto, portala in superficie, scrivi di lui, parla di lei, desidera i suoi libri, le sue opere, le sue azioni, acquistale, sfoggiale, godile, portatele a casa, usale, consumale, assorbile. Inventati parole nuove che possano esprimere i concetti e le sensazioni, pullulati e tortòrati!
Assurdo. Ridicolo.
Epilogo
Esempio pratico dell’inefficacia della citazione
Testo tratto dal volume di Jean Clair “La responsabilità dell’artista”, tradotto dal traduttore di google dall’italiano (già tradotto dal francese) all’esperanto e letto con l’accento della persona che legge che non ha la più pallida idea di come si legga l’esperanto.
“La pli alta la rolo de arto estis ĉiam nomumi individuojn kaj aĵoj, nomu ilin per ilia nomo, nomu ilin precize laŭvorte, kiel ili diras niajn fortojn. Rightness de la vorto kaj la bildo, kio signifas rememorigi nin, enoficigi ilin kaj turni ilin al ni, por cxio, "ĝis la bestoj mem," laŭ la bela esprimo de Rimbaud. "Gott ist Formo", skribis unu tagon Gottfried Benn, en blindiga intuicio. Ne "Gott ist eine Formoj", nek "Gott ist die Formo", nek difinitaj nek nedifinita, sed Dio estas la formo. Kaj 'la sola respondo, ŝajne, por la sarkasmo de nuntempa arto kiu ne nur plene forgesita proprii devoj, sed ankaŭ liaj povoj.”
(Il più alto ruolo dell'arte è sempre stato nominare gli individui e le cose, chiamarli con il loro nome, chiamarli esattamente parola a parola, così come si dice faccia a faccia. Giustezza della parola e dell'immagine, che vuol dire ricordarle a noi, nominarle e volgerle verso di noi, tutte le cose, "sino agli animali stessi", secondo la magnifica espressione di Rimbaud. "Gott ist Form", aveva scritto un giorno Gottfried Benn, in una folgorante intuizione. Non "Gott ist eine Forme", nè "Gott ist die Form", nè definito nè indefinito, ma Dio è forma. E' la sola risposta possibile, mi sembra, al sarcasmo di un'arte contemporanea che ha non solo del tutto dimenticato i proprii doveri, ma anche i propri poteri.)
Prima stesura – in forma di menabò, 4 pagine, ED. 1, 2016
Quando inciampo nell’intento di scrivere di argomenti di cultura in generale, cosciente di poter esprimermi sempre e comunque solo per approssimazione o per principio di approssimazione, mi accorgo che non ne vale mai la pena. Marchio “Notes” sul mac e audio sul cellulare che sistematicamente dimentico. Li ritrovo dopo mesi o settimane nel momento in cui mi si presenta l’occasione, come oggi, di scrivere di qualcosa o per qualcuno. E’ il caso gam-specific, per esempio. Allora mi rileggo e mi riascolto e non posso fare a meno di rivolgermi allo specchio per insultarlo: “Idiota! Stupido!”. Stupido e arrogante. Ma dentro alla testa ci sono enciclopedie di assunti impeccabili che mentre sogno danno il meglio di sé. O di me. Ho la testa nelle scarpe e cammino fino ad arrivare al dunque. Dunque mi domando quasi sempre una risposta. O più di una. Ne ho a bizzeffe. Ma non so come dirlo. Però intento. Comunque intento.
C’è un libro di Ziu Beu, eteronimo di maestro illuminato, che mi ha cambiato la vita. Il titolo: Se non sai come dirlo, Cita. In copertina, icona intramontabile, un tarzanesco Weissmuller e l’inseparabile scimmietta. Forse non è un caso che nella nostra lingua il verbo richiami il nome dello scimpanzè? Citare è sinonimo di scimmiottare? Si. Il Quote inglese, del resto, fa da eco al Quijote spagnolo, l’uomo che si scaglia contro l’illusione. Un pout-pourri d’intenzioni che, se ventilate nel momento esatto, sgravano la bocca dell’interlocutore, basendolo. Una zuppa di ciance. Pastine con la forma dei bla-bla.
Io, da uomo di non-scienza, da illaureato quale sono, preferisco da sempre parlare con la mia voce, dire le mie parole, moltiplicarmi in molteplici identità pur di parafrasare il ridicolo. Rischiando grosso, mi faccio giullare, giuggiolo e sfango. Illustro con idiomi onomatopeici e anamorfici la mia verità. Estremizzando, non dicendo il già detto, ripeto per propria voce e costruisco un ponte con te, mio interlocutore che amo perché in te vivo e di te ho bisogno. Noi due in relazione, un doppio senso che impedisca il divagare del senso unico poco alternato. Io e te che presupponiamo un flusso, di pensiero, di parola, di carne e di spazio trapassato di quanto in quanto, chiaro riferimento alla fisica. Dare voce al pappagallo è sterile e ci imbroglia nel pensiero unico, miseria senza nobiltà, gioco facile di memoria senza merito. Dare voce all’idea, seppur sgrammaticata, è vessillo d’identità, autonomia, originalità-origine-nascita-creazione, coraggio. Il vessillo del vassallo è la pigrizia, il citazionismo ruminato in quattro stomaci, il ri-ruminismo contemporaneo, epoca con molti lumi ma assai poche ragioni. Il patologico.
I cervelloni fumano e i cervellini sfriggono. Strategie ostiensi, astensioni estrose. Patetismi senza polemica. Terrore della polemica. Antidibattito e sproloquio. Quacchere e lacchere per saturare il tempo di parvenze metropolitane. Cosmoqualunquismo lirico. Dibattiti intonsi.
In situazioni simili pare di stare nella media, confortevole sobbollimento virtuale a guerrigliare in poltrona, noi che dovremmo essere quelli coltivati, intellighenzia opportunista che risolve i rebus al gabinetto. Grandi predicatori pasoliniani, basta che il leader sia defunto. Te la cavi a basso prezzo. Ora.
Santificatori di rottami e rottamatori di buoni propositi. Perbenisti ecologici. Conigli volpini, furbi quanto basta per sopravvivere sotto le righe, nei ranghi, al rogo. Estimatori di espedienti, postulanti quaresimali, silenziosi farlocchi ricchi di scuse, di poche grazie e pagherò fuori uso.
Io, Semaforo Brown, vengo dal volgo e come volgo, volgarizzo estetizzando. Perché, pur di nobile estrazione operaia, quello che dico faccio anche se astraggo mi destreggio. Sottoscrivo. M’indigno, non temo e polemizzo. Polemico è patetico, patetico è poetico. Poetico è inno. Innocente, innominabile, innuendo (allusione). La poesia è il dunque. La poesia non vende, il poeta langue, trema e freme. Tu, insulso sproloquiatore così mio simile, aborri il verso, persino quello sciolto. Non sai cos’è quindi giudichi male, scherzi, dileggi, sfotti. Non sai e non senti, basterebbe che fossi empatico o empatica o empatiX, come ti pare.
Io, Semaforo Brown, parlo di un tempo parafrasato nei toni del marrone, per terra, calpestato e strascicato via, un tempo metaforico. Interiorizzo i sussulti dell’apatia, sbuffo sulla polvere del già detto. Ammetto che non ci siano colpe insindacabili e promuovo assoluzioni certe. L’ironia è la sorte. Il senso del ridicolo si è dissolto nei gloriosi e infami eighties e non si è mai più materializzato. Noi che siamo quelli della pseudocultura, accademici farciti di nozioni che sfociano negli ismi di territori pre-colonizzati, USA e getta preconfezionati, precotti, precari. Cariatidi sostenenti frontoni ripuliti, rimodernati, dove spiccano cornicette irte antipiccione. Coroncine sui capi aureolati, sui monumenti in cui ci barrichiamo poiché, italici e barbari, godiamo i tempi passati che furono infami e gloriosi estrapolandone lustri e orgogli campali. Dimentichiamo il danno e la tragedia, essendone elegia rimane incisa nel marmo dei cimiteri che non visitiamo.
Critico d’arte, critico l’arte e non critico l’Arte. In queste arene si creano archivi di conoscenza. In queste arene, costruite per il confronto, si parla per voce sola. Non c’è nessuno. C’è qualcuno. Ci sarà ognuno, volendo, in un file online. Ma la vita, la vita e degli uccelli che parlano a un geco, discorso complesso, frode fedRIfraga fabula, amplesso avulso dal contesto. Assurdità. Eterodossia. Zero, centouno e qualche mila. Albume e Permafrost. Ialino e brinoso. Poesia. Artefatto.
Phatos-Logico, equilibrio.
Tagliare la testa al Quote per riappropriarsi del desiderio.
Voglio che tu mi dica che sono una bestia e che mi esponga le tue ragioni. Parlami la tua lingua, mettimela in bocca e insinuati, il desiderio è vita. Voglia di dire e di essere, svenevole esuberanza bollata come eccesso. Ecco, adesso, se invocassi Pentesilea tu ammiccheresti, penseresti: un riferimento, finalmente! Immagineresti cavalcate, passione e furia e annuiresti con un: si, si, ci sta. Ti sentiresti gratificato, se tirassi in ballo Koons gonfieresti tutti i palloncini, ne succhieresti l’elio e, stridulando e squittendo, profeteresti delle grandi verità. O se parlassi di memoria, di storie passate, di ricordi. Magari. Facile.
Se io sono te non sono me. Se sono te, il mio desiderio è un riflesso. Se sono me, il desiderio è il mio, unico, peculiare, inconfutabile. Può essere che sia un desiderio (discorso) elementare o complesso, casto o perverso. Non sta qui il punto. Il punto non sta nel giudizio. Il giudizio è casta, piramide, gerarchia. Lasciami essere banale. Un IO senza cappotto. Un io nudo, vulnerabile, vittorioso e relativamente anarchico. I riferimenti sono fondamenti educativi mentre il riporto è un’acconciatura posticcia. Te lo ripeto perché te lo voglio vendere, lo farò con ogni mezzo, attraverso laringi bulbose che vomitano dialoghi indiretti e simbolici. Ritornerà l’uso della metafora. Viviamo tempi barocchi che interpretiamo leggendo i tarocchi ma quando esce il Matto lo prendiamo per savio. Incrostati nell’adesso adessoraneo fatichiamo a sfangare i ceppi che ci costringono al suolo. Parliamo al presente, abbiamo perso i tempi e la sintassi, ignoriamo il futuro, non sappiamo pianificare, vedere, osservare. Leggiamo i bestseller, guardiamo i blockbuster e ci facciamo impressionare dagli impressionisti. Veneriamo (ancora in pochi perché ci parliamo addosso ma ancora per poco perché il mercatone è il logos della massa e la massa, cioè il popolo poco sovrano, viene educato dalla tv) l’Arte Povera, per esempio, perché il suo titolo ci conforta in tempi di crisi. Ci giustifica e vista così, a posteriori ma sfasata come fosse attuale, non critica ma annuisce. Anche i movimenti sono un fenomeno vintage. Li facciamo stampare su magliette e accessori, li portiamo (chi se lo può permettere) a casa e li installiamo come oggetti di design, ci appoggiamo sopra le chiavi o l’aperitivo. Decontestualizziamo persino i tempi pur di darci una spiegazione veloce, confortevole, approssimativa.
E’ solo che siamo drogati di “etichetta”, andiamo in crisi senza un label e senza un brand. L’etichetta e il brand sono delle citazioni perpetue, per dire.
Il logo Disney è un riferimento storico come la svastica, per dire.
Ora, che sia chiaro, non sto sparando a raffica contro la citazione, per carità. E’ l’attualissimo fenomeno della sovra-extra-troppa-surplus citazione che mi ingravida la bile. L’utilizzo del mezzuccio facile che copre la vergogna della povertà delle idee, la disonestà intellettuale. Il vuoto di desiderio. E’ ovvio che la ricchezza di idee, l’onestà intellettuale e il colmo del desiderio esistono, sono presenti ovunque. Ma non sono istituzionalizzati. Questa presenza è mal illuminata quindi molto spesso ignorata, non supportata. Non istituzionalizzata quindi non fertilizzata. A ogni domanda ogni risposta. Dai credito, cita (piuttosto) lo sconosciuto, portala in superficie, scrivi di lui, parla di lei, desidera i suoi libri, le sue opere, le sue azioni, acquistale, sfoggiale, godile, portatele a casa, usale, consumale, assorbile. Inventati parole nuove che possano esprimere i concetti e le sensazioni, pullulati e tortòrati!
Assurdo. Ridicolo.
Epilogo
Esempio pratico dell’inefficacia della citazione
Testo tratto dal volume di Jean Clair “La responsabilità dell’artista”, tradotto dal traduttore di google dall’italiano (già tradotto dal francese) all’esperanto e letto con l’accento della persona che legge che non ha la più pallida idea di come si legga l’esperanto.
“La pli alta la rolo de arto estis ĉiam nomumi individuojn kaj aĵoj, nomu ilin per ilia nomo, nomu ilin precize laŭvorte, kiel ili diras niajn fortojn. Rightness de la vorto kaj la bildo, kio signifas rememorigi nin, enoficigi ilin kaj turni ilin al ni, por cxio, "ĝis la bestoj mem," laŭ la bela esprimo de Rimbaud. "Gott ist Formo", skribis unu tagon Gottfried Benn, en blindiga intuicio. Ne "Gott ist eine Formoj", nek "Gott ist die Formo", nek difinitaj nek nedifinita, sed Dio estas la formo. Kaj 'la sola respondo, ŝajne, por la sarkasmo de nuntempa arto kiu ne nur plene forgesita proprii devoj, sed ankaŭ liaj povoj.”
(Il più alto ruolo dell'arte è sempre stato nominare gli individui e le cose, chiamarli con il loro nome, chiamarli esattamente parola a parola, così come si dice faccia a faccia. Giustezza della parola e dell'immagine, che vuol dire ricordarle a noi, nominarle e volgerle verso di noi, tutte le cose, "sino agli animali stessi", secondo la magnifica espressione di Rimbaud. "Gott ist Form", aveva scritto un giorno Gottfried Benn, in una folgorante intuizione. Non "Gott ist eine Forme", nè "Gott ist die Form", nè definito nè indefinito, ma Dio è forma. E' la sola risposta possibile, mi sembra, al sarcasmo di un'arte contemporanea che ha non solo del tutto dimenticato i proprii doveri, ma anche i propri poteri.)
Prima stesura – in forma di menabò, 4 pagine, ED. 1, 2016
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